giovedì 5 aprile 2012

IL CAFFETTANO BLUE

   C'erano giornate in cui pioveva a dirotto e poi d'un tratto spuntava il sole. L'aria era fresca, ma soprattutto umida: uno non sapeva mai come vestirsi.
   Iniziai ad osservare i passanti, scrutando il loro abbigliamento, per indagare quale fosse il miglior abito.
   In Sudamerica non si usava il caffettano. Meno che mai blue.

mercoledì 6 aprile 2011

LEXOTAN, MON AMOUR

   La calma si irradiava dallo stomaco verso la periferia dell'organismo; la sentiva scendere lungo le braccia fino alla punta delle dita: come la carezza di un amante, come un fiotto di sangue caldo, che il cuore pulsasse con forza dentro le arterie. Il ritmo cardiaco rallentava, il respiro si faceva più lento, i movimenti degli arti morbidi e pastose le parole nella bocca. Piano piano il sonno prendeva il sopravvento; la paura del mondo intorno a lei avrebbe ben presto lasciato la realtà, pur continuando a perseguitarla nei sogni; ma lì, nessuno si sarebbe fatto male sul serio.

domenica 13 marzo 2011

LE ORAZIONI

     Quando si era bimbi, tutto sembrava più grande. Mi ricordo che correre fino in fondo alla strada, dove sorgeva un tempo la nostra casa in campagna, mi pareva uno sforzo enorme, una cosa che avevo paura di fare, perché laggiù, in fondo alla via, sarei stato solo e mi sarei sentito senza protezione. Forse era per questo ingenuo timore che mi nascondevo spesso sotto il tavolo del soggiorno, il quale mi appariva incredibilmente alto: mi infilavo tra le gambe delle seggiole e poi via, di corsa, sotto le assi della grande tavola. Restavo lì seduto sul pavimento, con le sedie che mi facevano da scudo intorno, come le mura fortificate di una cittadella: a volte disegnavo, altre volte giocavo con un Big Jim che era rimasto senza una gamba oppure fingevo di essere il comandante di un'astronave ed osservavo, nella fessura tra il sedile e la traversa, lo spazio come da un oblò.

     Pure la minestra mi ricordo che sembrava troppa: non riuscivo mai a terminarla ed allora mia mamma mi ammoniva che i bambini del Biafra non erano fortunati come me, perché loro, la minestra, non l'avevano da mangiare. Io non sapevo dove fosse il Biafra - e non mi attentavo a chiederlo - però pensavo che io non ero un bambino del Biafra e che comunque, benché non con queste parole, avere una cosa non implicasse l'obbligo di usufruirne.

     Io non possedevo tanti giocattoli - non che la cosa mi dispiacesse, perché avevo libri sugli animali (pieni di figure!) più di tutti gli altri e me ne compravano sempre, solo che io lo chiedessi - ma i miei amici avevano stanze intere di balocchi; quando mi portavano da loro, non si giocava con tutte quelle cose: si finiva per usare sempre le stesse e le ricetrasmittenti più di tutte.

     Mi sembra che anche il tempo scorresse più lento: in macchina non passava mai ed io avevo un bel contare i piloni o le autovetture rosse sull'autostrada quando si andava al mare; e dal dentista attendevo sempre delle ore intere, ed in più dovevo rimanere seduto, mentre gli altri ragazzini facevano a botte tra di loro, nella sala d'attesa, senza che le rispettive madri rimproverassero loro alcunché.

     Infine, mi ricordo che anche le orazioni sembravano più lunghe: credo di aver pregato delle notti intere per ottenere un gioco in regalo, per la paura della vaccinazione del giorno successivo o perché la mamma ed il papà smettessero di litigare. Adesso, invece, dopo cinque minuti di preghiere sono già stanco e mi deconcentro. Eppure, anche ora vorrei tanto che fossero esaudite, forse lo vorrei addirittura più che allora. Oggi per sicurezza o per scaramanzia finisco addirittura per fare delle preghiere bizzarre, e porto rispetto un po' a tutti gli Dei, sebbene io creda solo ad Uno, perché pregare per quella cosa sembra un po' blasfemo. Accostare l'amore umano a quello divino è un esercizio complesso e mi pare di commettere un peccato mortale, dal momento che l'amore per Dio deve necessariamente essere il maggiore di tutti, ma è per quello di lei che io prego, con il cuore carico di speranza, che pare quasi fede.

lunedì 21 febbraio 2011

COTIDIE EXSATIARI (VINO CIBOQUE)

     Ogni giorno, quantomeno due volte e sempre alle ore dei pasti, passo di fronte alla mensa dei Cappuccini. Una piccola folla, composta per lo più o da persone di pelle scura o dai caratteri molto ariani, preme, ordinata ma impaziente, per valicare il cancello che protegge l'ingresso del refettorio.

     Quelli dai tratti magrebini indossano (quasi tutti) giubbotti imbottiti piuttosto sudici: parrebbero tanti ragazzini, con il Moncler, all'ingresso della scuola, se non fosse per la sporcizia del loro indumento; gli altri, i quali provengono con tutta evidenza dall'Europa orientale, invece, vestono, per la maggior parte, cappotti corti, scuri, portati sopra maglioni pesanti e di grezza fattura, e jeans dal taglio passato di moda; con un'etichetta sarebbero il prototipo del moderno quarantenne decadente.

     Sono uomini e donne; tuttavia, quelli non prestano troppa attenzione a queste né viceversa; solo qualche grosso fulvo dalla spalle larghe, raramente, si mostra minacciosamente protettivo nei riguardi di qualcuna in particolare, che gli sta accanto, quando gli occhi neri di un nordafricano indugiano troppo a lungo sopra di lei; donne arabe non ve ne sono: forse sono state lasciate sicure in casa. Gli uomini non si parlano: duellano soltanto a gesti e sguardi; la necessità comune impone loro la non belligeranza.

     Mangiano presto: io devo ancora fare l'aperitivo. Come faranno a buttar giù il cibo senza aver bevuto nulla prima?

sabato 15 gennaio 2011

LA CORONA DEL MERCANTE GIOSAFAT

     Navé era un mercante facoltoso e fortunato: disponeva, infatti, di molto danaro, di due magazzini zeppi di merci nei pressi del porto ed addirittura di un’imbarcazione adatta a trasportare il bestiame. Navé aveva una grande casa, dodici servitori, quattro concubine ed una moglie, Yehosheva, di opulente bellezza. Non si poteva dire che vi fosse, in tutta la città, uomo più ricco di lui; quando i suoi servitori arrivavano al mercato, gli altri mercanti si affrettavano ad esporre le loro merci più pregiate ed i loro animali migliori, perché dove gli altri acquistavano uno, Navé comprava cinque e quando gli altri pagavano dieci, Navé offriva venticinque.

     Una mattina, come suo solito, Navé si presentò al mercato tardi, per concludere gli affari, che i suoi servi avevano già intrapreso, per suo conto nelle ore precedenti, selezionando le merci che il padrone avrebbe compravenduto. Mentre, guidato dal suo servitore più fedele, camminava di tra mezzo ai banchi ed alle stuoie ricolmi di oggetti, bestie e pesci si imbatté in un uomo che sedeva, con le gambe incrociate, dietro un tappeto, spiegato a terra e sgombro, se non per una piccola scatola scura, collocata nell’angolo di sinistra più lontano dal passeggio. Quest’uomo non si era mai visto, prima di allora, nel mercato: se ne stava immobile, con gli occhi chiusi, sordo alla confusione della fiera, quasi fosse una statua colà posta in vendita. Navé si fermò davanti a lui, lo osservò perplesso per qualche secondo, poi lo interrogò: «Io sono qui ogni giorno di mercato e conosco uno per uno tutti i mercanti in questa piazza, ma non so chi tu sia. Qual è, dunque, il tuo nome e di che fai commercio?».

     L’uomo, senza tradire emozione alcuna, placido rispose: «Il mio nome è Giosafat e sono qui per vendere la scatola che tengo alla mia destra».

     «E che cosa contiene la scatola che tu vorresti vendere?», lo interrogò ancora Navé.

     Rispose Giosafat: «Non lo so. La ebbi in dono da mio padre quando ero bambino, richiedendomi di non aprirla mai. Mi ordinò anche di non disfarmene, se non per assoluto bisogno. Ora – come tu puoi vedere – io posseggo solo i vestiti che indosso, il tappeto qui davanti a me, sul quale mi corico la notte, e la scatola. I primi ed il secondo non posso cederli, perché non sono un animale, che si muove nudo e dorme sulla terra. Dunque, o vendo la mia scatola oggi o morirò di fame stanotte, perché sono già dieci giorni che non mangio cibo e non bevo vino».

     Navé osservò l’aspetto dell’uomo: davvero aveva il viso scavato e le mani rinsecchite; lo interrogò nuovamente: «Che cosa contiene la scatola?».

     Rispose Giosafat: «Già te lo dissi una volta; tuttavia, ho motivo di credere che sia qualcosa di prezioso: mio padre, infatti, prima di donarmela, la teneva nascosta dentro un profondo pozzo, che aveva fatto chiudere con un pesante coperchio di ferro e che faceva vigilare continuamente da quattro guardie armate e fidatissime».

     A tali parole, la curiosità ferì Navé come un amo adunco, che, tirato con forza dalla lenza, gli strappasse la fibra del cuore. «Ti darò danaro a sufficienza perché tu possa mangiare per sei mensilità in cambio della tua scatola!», propose Navé; gli astanti si stupirono della grandiosità dell’offerta e, dalla folla, che si era radunata attorno ai due, si levò un brusìo di stupore.

     Ma Giosafat replicò calmo: «La tua offerta è generosa, ma io morirò stanotte piuttosto che cederti la mia scatola in cambio di sei mesi di cibo».

     Navé percepì tale risposta come un insulto, tuttavia rilanciò: «Ti darò danaro a sufficienza perché tu possa mangiare per un anno intero in cambio della tua scatola!».

     La folla intorno iniziò quasi a protestare e qualcuno gridava che Navé aveva perduto il senno e che stava dissipando tutto il suo patrimonio.

     Incurante delle grida dei presenti, Giosafat ribatté calmo: «La tua offerta è generosa, ma io morirò stanotte piuttosto che cederti la mia scatola in cambio di un anno di cibo».

     Navé si contrariò assai, tuttavia ormai la curiosità lo possedeva e dichiarò: «Tu sei il più astuto mercante, in cui io mi sia mai imbattuto. Ciò, che è mio, è tuo, purché tu ceda a me soltanto la tua scatola. Ecco, prendi quattro dei miei servitori e va’ dove ti pare per il mondo: ovunque tu sarai potrai fare affidamento sulle mie sostanze e spendere il mio nome presso i creditori».

     A tali parole, Giosafat aprì gli occhi e lanciò uno sguardo corrusco ed insolente verso Navé; poi prese la scatola tra le mani, si sollevò in piedi e gliela porse; ripiegò il suo tappeto, lo diede in consegna ad uno dei quattro servi affidatigli e, con loro, scomparse tra la folla.

     Giunto a casa, Navé si rinchiuse nelle sue stanze, scacciò tutti i servitori, le concubine e persino la moglie; non volle che fosse servito il pranzo ed ordinò a tutti di non cercarlo, di considerarlo come morto fino a nuovo ordine. Una volta solo, Navé si avvicinò, pieno di emozione, alla scatola. Come sollevò il coperchio, una luce bianca ed intensissima balenò dalla fessura accecandolo; un subitaneo sentimento di infinita dolcezza e misericordia lo pervase: mentre sollevava la corona contenuta nella scatola, le sue braccia gli parevano leggere, come se si stesse muovendo nell’acqua; una calma cosmica lo guidava nei movimenti e si sentì intimamente felice; provò amore, benché diverso da come amava il suo servo più fedele o da come amava sua moglie Yehosheva: pensò che quello assomigliasse, sebbene fosse maggiore e più intenso, all’amore che si doveva provare nei riguardi dei figli. Navé strinse la corona al suo petto e cadde a terra, vinto dalla commozione, mentre un sorriso estatico gli inarcava le labbra sotto la folta barba canuta.

     Navé rimase diversi giorni così abbracciato alla corona steso sul pavimento, finché sua moglie, preoccupata dalla sua assenza, si risolse a violare l’ordine del marito e lo andò a cercare nella casa. Trovatolo, anch’ella fu subito conquistata dalla bellezza e magnificenza della corona: non appena la luce attinse la sua figura, Yehosheva cadde in ginocchio e lacrime calde sgorgarono dai suoi occhi cerulei ad accarezzarle le gote.

     Ben presto, però, il senso di piacere da lei provato in quel momento si tramutò in desiderio di possesso; ella si levò in piedi, si avvicinò al marito e prese ad accarezzargli la barba e le mani, mentre, con tutto il languore dei suoi sedici anni, sussurrava al suo orecchio: «Navé! Navé! Amore mio, sono già sei giorni che non mangi! Lascia questa corona e vieni con me: comanderò che preparino un sontuoso banchetto, perché tutti ti credevamo morto e tu invece sei ancora tra noi!».

     Intanto, mentre gli accarezzava le mani, tentava di sfilargli di tra le dita la corona dorata. Navé non rispose e le sue mani restarono salde sulla corona.

     Allora lei riprese: «Navé! Navé! Amore mio, sono già sei notti che non mi presti attenzione! Lascia questa corona e vieni con me: l’alcova è già pronta ed io non attendevo che te!».

     E mentre diceva queste parole, tentava di allentare la presa del marito sulla corona lucente. Navé non rispose e le sue mani preferirono la corona al corpo di Yehosheva.

     Allora la donna, che era meschina, si scostò un poco da lui e così gli si rivolse: «Navé, tu ami più una corona d’oro di me, che sono la donna più attraente della città. A te, che sei molto più anziano di me, mio padre mi ha concessa in sposa, ma ora tu mi preferisci del metallo, il quale, per quanto prezioso, non ti può baciare o lisciare la barba quando dormi».

     Navé, allora, come se si fosse risvegliato da un letargo, le rispose: «Yehosheva, tu sei mia moglie e ti ho scelta, perché eri bella tra le belle e per questo io ti ho amata e ti amo ancora; ma la tua bellezza è destinata a svanire, come svanisce la fiamma nel fumo, mentre la bellezza di questa mia corona non perirà mai».

     Dopo aver detto tali parole, Navé si alzò e, sempre tenendo la corona stretta a sé, chiamò i servi, affinché preparassero un banchetto. Yehosheva si sentì, per la prima volta in vita sua, cadùca e brutta: ciò alimentò ancora di più il suo desiderio di possedere la corona. Parlò, pertanto, in questi termini a Navé: «Se io non sono più il tuo bene preziosissimo, gettami via in mezzo alla strada come un coccio rotto oppure abbandonami fuori dalle mura della città come una vitella malata: non me ne importa; però, se ami così tanto la corona, accetta questo mio consiglio: adòperati per proteggerla; numerosi, infatti, sono i ladroni in questa città e non a lungo potrai trattenere un gioiello tanto impareggiabile, se te lo porti sempre addosso. Dunque, nascondilo bene in casa e fai presidiare la stanza da dieci uomini armati, affinché nessuno osi avvicinarsi ad esso».

     Navé si adirò e proruppe iracondo: «Stolta sei e come una stolta hai parlato! Questo, che è il mio bene più prezioso e vale sette volte sette la mia vita, io so dove nasconderlo, perché nessuno me lo sottragga. Dieci uomini armati, infatti, nulla potrebbero contro una sola donna impudica!».

     Dette queste parole, ordinò che l’indomani si tornasse al mercato, ma vietando qualsiasi compravendita ai suoi servi.

     La mattina seguente, dunque, si alzò presto, nascose l’amata corona sotto un pesante panno di lana e si recò al mercato. Qui giunto, si pose nel centro della piazza, poggiò a terra la corona e subitamente levò la coperta. A quel gesto, tutti coloro i quali si trovavano nella piazza si voltarono verso la corona ed accorsero: molti si inginocchiarono, altri iniziarono a piangere, altri ancora levarono lodi. Tutti erano presi dall’estasi che quel gioiello suscitava, ma nessuno osava avvicinarsi troppo, perché timoroso della reazione degli altri. Da quel giorno nella piazza non si tenne più la fiera: essa divenne luogo di pellegrinaggio e così è anche ai giorni nostri.

venerdì 24 dicembre 2010

THE TRICK WAS TO HOLD MY BREATH

     Quando ero piccolo mi capitava spesso di fingere di essere morto. Mi sdraiavo sul pavimento in cucina o nell’ingresso ed attendevo che mia mamma si accorgesse di me. Le prime volte, quando passava e non si fermava a controllare se ancora fossi vivo, le gridavo: «Mamma, sono morto!», ma lei rispondeva che non potevo essere morto, perché i morti non parlano. Iniziai dunque a restare silenzioso: mi buttavo a terra proprio nel mezzo della stanza, dove era il passaggio, ed attendevo. Mia mamma sopraggiungeva, mi scavalcava, completamente non curante del fatto che io giacessi muto sull’impiantito, e continuava ad occuparsi di ciò che stava facendo. Allora io, che tenevo gli occhi un poco socchiusi e la vedevo mentre mi sovrastava nell’incedere, mi alzavo di scatto e le correvo incontro, protestando che nonostante io fossi sdraiato per terra come morto, lei non si era minimamente preoccupata di ciò. Da questo, argomentavo, si comprendeva come a lei fosse affatto indifferente che vivessi o che morissi. Placidamente, mia madre replicava che mi aveva visto respirare e siccome i morti non respirano, non c’era motivo di preoccuparsi che io fossi morto. Capii immediatamente che non alitare, per fingere di essere deceduto, non era così facile come non parlare. Feci anche diverse prove, ma inevitabilmente, dopo un po’ che trattenevo il respiro, qualcosa mi imponeva di espirare e poi subito di inspirare velocemente, per riprendere ossigeno.

     Ricordo che onde evitare di mostrare che rifiatavo, escogitai di fingere di essere morto a letto, sotto le coperte. La domenica mattina, attendevo che mia mamma venisse a svegliarmi in camera, mi facevo trovare coperto da tutte le lenzuola e lasciavo soltanto una gamba od un braccio scoperti penzoloni fuori dal letto; non rispondevo quando ero chiamato e restavo immobile così nascosto nella branda. Dopo che per la seconda o terza volta mi aveva invitato ad alzarmi, mia mamma se ne andava, senza minimamente avvicinarsi a me, per verificare se fossi ancora in vita.

     Alla luce di tutti questi fallimenti, dopo qualche tempo, io smisi di fingere di essere morto; sulla base di ciò che avevo sentito dai grandi, avevo maturato l’idea che solo le persone vecchie decedessero. Mi dovevo rassegnare pertanto: fino a che fossi stato un bambino, non avrei potuto ingannare mia mamma. Un giorno, tuttavia, nonostante mia madre non me lo volesse dire apertamente, venni a sapere che il figlio di due amici dei miei genitori, che aveva soltanto un anno in più di me, era improvvisamente morto. Rimasi abbastanza colpito dalla notizia ed ancora adesso non mi capacito di come sua mamma possa essersene accorta.

lunedì 29 novembre 2010

SÃO PAULO

     Nel novembre 1964 fuggimmo in Brasile. Partimmo da Roma in un pomeriggio piovoso e freddo: sembrava di stare a Milano. Arrivammo a San Paolo, che era di nuovo giorno e faceva caldo. Avevo prenotato una suite, dall’Italia, al Ca’ d’Oro dieci giorni prima, per far sì che arrivassero i soldi della caparra: non immaginavo che fosse tanto difficile trasferire legalmente del danaro. E non mi era neanche mai successo prima che l’albergo pretendesse un anticipo; qui non mi conosceva nessuno: mi sarei dovuto abituare a vivere in questa nuova condizione. Non ero nemmeno sicuro che avessero mandato la macchina a prenderci: non trovammo subito lo chauffeur; per un attimo pensai: «Sono qui nel mezzo di un aeroporto in un Paese sconosciuto, dove nessuno sembra saper spiaccicare neanche due parole in francese. E ho portato anche te. Che casino ho combinato!». Per fortuna, dopo circa una mezz’ora, Jacqueline notò un signore in mezze maniche di camicia bianca, il quale teneva in mano un cartello, con su scritto a mano in caratteri maiuscoli: «RAFAELI». Neanche il cognome avevano compreso. Salimmo sulla vettura, mentre l’uomo caricava i bagagli; erano tanti e non stavano tutti nel baule: mise alcune valigie anche sul sedile anteriore; la più parte, però, era rimasta in Italia. Una borsa era piena di contanti, ma la lasciai comunque sistemare all’autista; non mi importava molto, non riuscivo a vedere altro che te: ti eri seduta sulla destra del divano posteriore della Mercedes, ti nascondevi dietro quei grossi occhiali scuri e guardavi fuori dal finestrino, dalla parte opposta rispetto a me.

     Dopo qualche tempo, iniziammo ad ambientarci: trovammo casa, imparammo il portoghese (tu meglio di me: io lo confondevo con lo spagnolo ogni tanto) e ricostruimmo le relazioni necessarie ad una vita. Mario ci aveva suggerito bene: con un decimo dei soldi che avevamo in Italia – gli unici che riuscimmo a trasferire – si riusciva a condurre una vita il doppio più lussuosa. Tu ripresi a sorridere, io a fare il mio lavoro (qui era anche così facile) e pure i tuoi baci tornarono ad avere il gusto di prima, di quando ci eravamo conosciuti, di quando tutto era iniziato.

     Ora sono passati tanti anni e sono immobile su questo letto: sembra che io dorma o che, vecchio, io sia morto. Le mie orecchie sono sorde, la mia bocca chiusa e muta; non percepisco odori e da mesi non mi alimentano più dalla bocca: forse nemmeno la lingua funziona più. Io lo so che loro si domandano se io soffra o meno; si interrogano se io voglia morire o restare in vita; qualcuno forse spera che miracolosamente io mi risvegli – come dopo una lunga dormita – ma molti altri di certo si augurano che io crepi presto. In realtà, da quando sono ridotto così, non mi sono mai posto tutte queste domande: semplicemente non te le fai. Non io almeno. Io non sento niente: non so se sono fermo o se qualcuno mi muova; non so cosa dica il dottore, non so cosa faccia l’infermiera, non so neanche dove sono: lo immagino e basta. Non dormo, non sono sveglio, non faccio alcunché, a parte pensare. Penso di continuo. Penso a tutta la mia vita; ogni giorno la ripercorro tutta, dal primo ricordo fino all’ultimo. Solamente, ogni tanto, ho come l’impressione che ti avvicini al letto, che tu resti circa a mezzo metro da me e mi guardi. Ed allora provo qualcosa: sento come una mano stretta a pugno che da sotto lo sterno si avvicina al cuore e lievemente, ma continuamente, lo comprime verso l’alto. Poi ti allontani, e passa. Io, quei tre giorni in cui non mi parlasti dal nostro arrivo a San Paolo, non me li sono mai perdonati.