lunedì 29 novembre 2010

SÃO PAULO

     Nel novembre 1964 fuggimmo in Brasile. Partimmo da Roma in un pomeriggio piovoso e freddo: sembrava di stare a Milano. Arrivammo a San Paolo, che era di nuovo giorno e faceva caldo. Avevo prenotato una suite, dall’Italia, al Ca’ d’Oro dieci giorni prima, per far sì che arrivassero i soldi della caparra: non immaginavo che fosse tanto difficile trasferire legalmente del danaro. E non mi era neanche mai successo prima che l’albergo pretendesse un anticipo; qui non mi conosceva nessuno: mi sarei dovuto abituare a vivere in questa nuova condizione. Non ero nemmeno sicuro che avessero mandato la macchina a prenderci: non trovammo subito lo chauffeur; per un attimo pensai: «Sono qui nel mezzo di un aeroporto in un Paese sconosciuto, dove nessuno sembra saper spiaccicare neanche due parole in francese. E ho portato anche te. Che casino ho combinato!». Per fortuna, dopo circa una mezz’ora, Jacqueline notò un signore in mezze maniche di camicia bianca, il quale teneva in mano un cartello, con su scritto a mano in caratteri maiuscoli: «RAFAELI». Neanche il cognome avevano compreso. Salimmo sulla vettura, mentre l’uomo caricava i bagagli; erano tanti e non stavano tutti nel baule: mise alcune valigie anche sul sedile anteriore; la più parte, però, era rimasta in Italia. Una borsa era piena di contanti, ma la lasciai comunque sistemare all’autista; non mi importava molto, non riuscivo a vedere altro che te: ti eri seduta sulla destra del divano posteriore della Mercedes, ti nascondevi dietro quei grossi occhiali scuri e guardavi fuori dal finestrino, dalla parte opposta rispetto a me.

     Dopo qualche tempo, iniziammo ad ambientarci: trovammo casa, imparammo il portoghese (tu meglio di me: io lo confondevo con lo spagnolo ogni tanto) e ricostruimmo le relazioni necessarie ad una vita. Mario ci aveva suggerito bene: con un decimo dei soldi che avevamo in Italia – gli unici che riuscimmo a trasferire – si riusciva a condurre una vita il doppio più lussuosa. Tu ripresi a sorridere, io a fare il mio lavoro (qui era anche così facile) e pure i tuoi baci tornarono ad avere il gusto di prima, di quando ci eravamo conosciuti, di quando tutto era iniziato.

     Ora sono passati tanti anni e sono immobile su questo letto: sembra che io dorma o che, vecchio, io sia morto. Le mie orecchie sono sorde, la mia bocca chiusa e muta; non percepisco odori e da mesi non mi alimentano più dalla bocca: forse nemmeno la lingua funziona più. Io lo so che loro si domandano se io soffra o meno; si interrogano se io voglia morire o restare in vita; qualcuno forse spera che miracolosamente io mi risvegli – come dopo una lunga dormita – ma molti altri di certo si augurano che io crepi presto. In realtà, da quando sono ridotto così, non mi sono mai posto tutte queste domande: semplicemente non te le fai. Non io almeno. Io non sento niente: non so se sono fermo o se qualcuno mi muova; non so cosa dica il dottore, non so cosa faccia l’infermiera, non so neanche dove sono: lo immagino e basta. Non dormo, non sono sveglio, non faccio alcunché, a parte pensare. Penso di continuo. Penso a tutta la mia vita; ogni giorno la ripercorro tutta, dal primo ricordo fino all’ultimo. Solamente, ogni tanto, ho come l’impressione che ti avvicini al letto, che tu resti circa a mezzo metro da me e mi guardi. Ed allora provo qualcosa: sento come una mano stretta a pugno che da sotto lo sterno si avvicina al cuore e lievemente, ma continuamente, lo comprime verso l’alto. Poi ti allontani, e passa. Io, quei tre giorni in cui non mi parlasti dal nostro arrivo a San Paolo, non me li sono mai perdonati.

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