sabato 15 gennaio 2011

LA CORONA DEL MERCANTE GIOSAFAT

     Navé era un mercante facoltoso e fortunato: disponeva, infatti, di molto danaro, di due magazzini zeppi di merci nei pressi del porto ed addirittura di un’imbarcazione adatta a trasportare il bestiame. Navé aveva una grande casa, dodici servitori, quattro concubine ed una moglie, Yehosheva, di opulente bellezza. Non si poteva dire che vi fosse, in tutta la città, uomo più ricco di lui; quando i suoi servitori arrivavano al mercato, gli altri mercanti si affrettavano ad esporre le loro merci più pregiate ed i loro animali migliori, perché dove gli altri acquistavano uno, Navé comprava cinque e quando gli altri pagavano dieci, Navé offriva venticinque.

     Una mattina, come suo solito, Navé si presentò al mercato tardi, per concludere gli affari, che i suoi servi avevano già intrapreso, per suo conto nelle ore precedenti, selezionando le merci che il padrone avrebbe compravenduto. Mentre, guidato dal suo servitore più fedele, camminava di tra mezzo ai banchi ed alle stuoie ricolmi di oggetti, bestie e pesci si imbatté in un uomo che sedeva, con le gambe incrociate, dietro un tappeto, spiegato a terra e sgombro, se non per una piccola scatola scura, collocata nell’angolo di sinistra più lontano dal passeggio. Quest’uomo non si era mai visto, prima di allora, nel mercato: se ne stava immobile, con gli occhi chiusi, sordo alla confusione della fiera, quasi fosse una statua colà posta in vendita. Navé si fermò davanti a lui, lo osservò perplesso per qualche secondo, poi lo interrogò: «Io sono qui ogni giorno di mercato e conosco uno per uno tutti i mercanti in questa piazza, ma non so chi tu sia. Qual è, dunque, il tuo nome e di che fai commercio?».

     L’uomo, senza tradire emozione alcuna, placido rispose: «Il mio nome è Giosafat e sono qui per vendere la scatola che tengo alla mia destra».

     «E che cosa contiene la scatola che tu vorresti vendere?», lo interrogò ancora Navé.

     Rispose Giosafat: «Non lo so. La ebbi in dono da mio padre quando ero bambino, richiedendomi di non aprirla mai. Mi ordinò anche di non disfarmene, se non per assoluto bisogno. Ora – come tu puoi vedere – io posseggo solo i vestiti che indosso, il tappeto qui davanti a me, sul quale mi corico la notte, e la scatola. I primi ed il secondo non posso cederli, perché non sono un animale, che si muove nudo e dorme sulla terra. Dunque, o vendo la mia scatola oggi o morirò di fame stanotte, perché sono già dieci giorni che non mangio cibo e non bevo vino».

     Navé osservò l’aspetto dell’uomo: davvero aveva il viso scavato e le mani rinsecchite; lo interrogò nuovamente: «Che cosa contiene la scatola?».

     Rispose Giosafat: «Già te lo dissi una volta; tuttavia, ho motivo di credere che sia qualcosa di prezioso: mio padre, infatti, prima di donarmela, la teneva nascosta dentro un profondo pozzo, che aveva fatto chiudere con un pesante coperchio di ferro e che faceva vigilare continuamente da quattro guardie armate e fidatissime».

     A tali parole, la curiosità ferì Navé come un amo adunco, che, tirato con forza dalla lenza, gli strappasse la fibra del cuore. «Ti darò danaro a sufficienza perché tu possa mangiare per sei mensilità in cambio della tua scatola!», propose Navé; gli astanti si stupirono della grandiosità dell’offerta e, dalla folla, che si era radunata attorno ai due, si levò un brusìo di stupore.

     Ma Giosafat replicò calmo: «La tua offerta è generosa, ma io morirò stanotte piuttosto che cederti la mia scatola in cambio di sei mesi di cibo».

     Navé percepì tale risposta come un insulto, tuttavia rilanciò: «Ti darò danaro a sufficienza perché tu possa mangiare per un anno intero in cambio della tua scatola!».

     La folla intorno iniziò quasi a protestare e qualcuno gridava che Navé aveva perduto il senno e che stava dissipando tutto il suo patrimonio.

     Incurante delle grida dei presenti, Giosafat ribatté calmo: «La tua offerta è generosa, ma io morirò stanotte piuttosto che cederti la mia scatola in cambio di un anno di cibo».

     Navé si contrariò assai, tuttavia ormai la curiosità lo possedeva e dichiarò: «Tu sei il più astuto mercante, in cui io mi sia mai imbattuto. Ciò, che è mio, è tuo, purché tu ceda a me soltanto la tua scatola. Ecco, prendi quattro dei miei servitori e va’ dove ti pare per il mondo: ovunque tu sarai potrai fare affidamento sulle mie sostanze e spendere il mio nome presso i creditori».

     A tali parole, Giosafat aprì gli occhi e lanciò uno sguardo corrusco ed insolente verso Navé; poi prese la scatola tra le mani, si sollevò in piedi e gliela porse; ripiegò il suo tappeto, lo diede in consegna ad uno dei quattro servi affidatigli e, con loro, scomparse tra la folla.

     Giunto a casa, Navé si rinchiuse nelle sue stanze, scacciò tutti i servitori, le concubine e persino la moglie; non volle che fosse servito il pranzo ed ordinò a tutti di non cercarlo, di considerarlo come morto fino a nuovo ordine. Una volta solo, Navé si avvicinò, pieno di emozione, alla scatola. Come sollevò il coperchio, una luce bianca ed intensissima balenò dalla fessura accecandolo; un subitaneo sentimento di infinita dolcezza e misericordia lo pervase: mentre sollevava la corona contenuta nella scatola, le sue braccia gli parevano leggere, come se si stesse muovendo nell’acqua; una calma cosmica lo guidava nei movimenti e si sentì intimamente felice; provò amore, benché diverso da come amava il suo servo più fedele o da come amava sua moglie Yehosheva: pensò che quello assomigliasse, sebbene fosse maggiore e più intenso, all’amore che si doveva provare nei riguardi dei figli. Navé strinse la corona al suo petto e cadde a terra, vinto dalla commozione, mentre un sorriso estatico gli inarcava le labbra sotto la folta barba canuta.

     Navé rimase diversi giorni così abbracciato alla corona steso sul pavimento, finché sua moglie, preoccupata dalla sua assenza, si risolse a violare l’ordine del marito e lo andò a cercare nella casa. Trovatolo, anch’ella fu subito conquistata dalla bellezza e magnificenza della corona: non appena la luce attinse la sua figura, Yehosheva cadde in ginocchio e lacrime calde sgorgarono dai suoi occhi cerulei ad accarezzarle le gote.

     Ben presto, però, il senso di piacere da lei provato in quel momento si tramutò in desiderio di possesso; ella si levò in piedi, si avvicinò al marito e prese ad accarezzargli la barba e le mani, mentre, con tutto il languore dei suoi sedici anni, sussurrava al suo orecchio: «Navé! Navé! Amore mio, sono già sei giorni che non mangi! Lascia questa corona e vieni con me: comanderò che preparino un sontuoso banchetto, perché tutti ti credevamo morto e tu invece sei ancora tra noi!».

     Intanto, mentre gli accarezzava le mani, tentava di sfilargli di tra le dita la corona dorata. Navé non rispose e le sue mani restarono salde sulla corona.

     Allora lei riprese: «Navé! Navé! Amore mio, sono già sei notti che non mi presti attenzione! Lascia questa corona e vieni con me: l’alcova è già pronta ed io non attendevo che te!».

     E mentre diceva queste parole, tentava di allentare la presa del marito sulla corona lucente. Navé non rispose e le sue mani preferirono la corona al corpo di Yehosheva.

     Allora la donna, che era meschina, si scostò un poco da lui e così gli si rivolse: «Navé, tu ami più una corona d’oro di me, che sono la donna più attraente della città. A te, che sei molto più anziano di me, mio padre mi ha concessa in sposa, ma ora tu mi preferisci del metallo, il quale, per quanto prezioso, non ti può baciare o lisciare la barba quando dormi».

     Navé, allora, come se si fosse risvegliato da un letargo, le rispose: «Yehosheva, tu sei mia moglie e ti ho scelta, perché eri bella tra le belle e per questo io ti ho amata e ti amo ancora; ma la tua bellezza è destinata a svanire, come svanisce la fiamma nel fumo, mentre la bellezza di questa mia corona non perirà mai».

     Dopo aver detto tali parole, Navé si alzò e, sempre tenendo la corona stretta a sé, chiamò i servi, affinché preparassero un banchetto. Yehosheva si sentì, per la prima volta in vita sua, cadùca e brutta: ciò alimentò ancora di più il suo desiderio di possedere la corona. Parlò, pertanto, in questi termini a Navé: «Se io non sono più il tuo bene preziosissimo, gettami via in mezzo alla strada come un coccio rotto oppure abbandonami fuori dalle mura della città come una vitella malata: non me ne importa; però, se ami così tanto la corona, accetta questo mio consiglio: adòperati per proteggerla; numerosi, infatti, sono i ladroni in questa città e non a lungo potrai trattenere un gioiello tanto impareggiabile, se te lo porti sempre addosso. Dunque, nascondilo bene in casa e fai presidiare la stanza da dieci uomini armati, affinché nessuno osi avvicinarsi ad esso».

     Navé si adirò e proruppe iracondo: «Stolta sei e come una stolta hai parlato! Questo, che è il mio bene più prezioso e vale sette volte sette la mia vita, io so dove nasconderlo, perché nessuno me lo sottragga. Dieci uomini armati, infatti, nulla potrebbero contro una sola donna impudica!».

     Dette queste parole, ordinò che l’indomani si tornasse al mercato, ma vietando qualsiasi compravendita ai suoi servi.

     La mattina seguente, dunque, si alzò presto, nascose l’amata corona sotto un pesante panno di lana e si recò al mercato. Qui giunto, si pose nel centro della piazza, poggiò a terra la corona e subitamente levò la coperta. A quel gesto, tutti coloro i quali si trovavano nella piazza si voltarono verso la corona ed accorsero: molti si inginocchiarono, altri iniziarono a piangere, altri ancora levarono lodi. Tutti erano presi dall’estasi che quel gioiello suscitava, ma nessuno osava avvicinarsi troppo, perché timoroso della reazione degli altri. Da quel giorno nella piazza non si tenne più la fiera: essa divenne luogo di pellegrinaggio e così è anche ai giorni nostri.