venerdì 24 dicembre 2010

THE TRICK WAS TO HOLD MY BREATH

     Quando ero piccolo mi capitava spesso di fingere di essere morto. Mi sdraiavo sul pavimento in cucina o nell’ingresso ed attendevo che mia mamma si accorgesse di me. Le prime volte, quando passava e non si fermava a controllare se ancora fossi vivo, le gridavo: «Mamma, sono morto!», ma lei rispondeva che non potevo essere morto, perché i morti non parlano. Iniziai dunque a restare silenzioso: mi buttavo a terra proprio nel mezzo della stanza, dove era il passaggio, ed attendevo. Mia mamma sopraggiungeva, mi scavalcava, completamente non curante del fatto che io giacessi muto sull’impiantito, e continuava ad occuparsi di ciò che stava facendo. Allora io, che tenevo gli occhi un poco socchiusi e la vedevo mentre mi sovrastava nell’incedere, mi alzavo di scatto e le correvo incontro, protestando che nonostante io fossi sdraiato per terra come morto, lei non si era minimamente preoccupata di ciò. Da questo, argomentavo, si comprendeva come a lei fosse affatto indifferente che vivessi o che morissi. Placidamente, mia madre replicava che mi aveva visto respirare e siccome i morti non respirano, non c’era motivo di preoccuparsi che io fossi morto. Capii immediatamente che non alitare, per fingere di essere deceduto, non era così facile come non parlare. Feci anche diverse prove, ma inevitabilmente, dopo un po’ che trattenevo il respiro, qualcosa mi imponeva di espirare e poi subito di inspirare velocemente, per riprendere ossigeno.

     Ricordo che onde evitare di mostrare che rifiatavo, escogitai di fingere di essere morto a letto, sotto le coperte. La domenica mattina, attendevo che mia mamma venisse a svegliarmi in camera, mi facevo trovare coperto da tutte le lenzuola e lasciavo soltanto una gamba od un braccio scoperti penzoloni fuori dal letto; non rispondevo quando ero chiamato e restavo immobile così nascosto nella branda. Dopo che per la seconda o terza volta mi aveva invitato ad alzarmi, mia mamma se ne andava, senza minimamente avvicinarsi a me, per verificare se fossi ancora in vita.

     Alla luce di tutti questi fallimenti, dopo qualche tempo, io smisi di fingere di essere morto; sulla base di ciò che avevo sentito dai grandi, avevo maturato l’idea che solo le persone vecchie decedessero. Mi dovevo rassegnare pertanto: fino a che fossi stato un bambino, non avrei potuto ingannare mia mamma. Un giorno, tuttavia, nonostante mia madre non me lo volesse dire apertamente, venni a sapere che il figlio di due amici dei miei genitori, che aveva soltanto un anno in più di me, era improvvisamente morto. Rimasi abbastanza colpito dalla notizia ed ancora adesso non mi capacito di come sua mamma possa essersene accorta.

lunedì 29 novembre 2010

SÃO PAULO

     Nel novembre 1964 fuggimmo in Brasile. Partimmo da Roma in un pomeriggio piovoso e freddo: sembrava di stare a Milano. Arrivammo a San Paolo, che era di nuovo giorno e faceva caldo. Avevo prenotato una suite, dall’Italia, al Ca’ d’Oro dieci giorni prima, per far sì che arrivassero i soldi della caparra: non immaginavo che fosse tanto difficile trasferire legalmente del danaro. E non mi era neanche mai successo prima che l’albergo pretendesse un anticipo; qui non mi conosceva nessuno: mi sarei dovuto abituare a vivere in questa nuova condizione. Non ero nemmeno sicuro che avessero mandato la macchina a prenderci: non trovammo subito lo chauffeur; per un attimo pensai: «Sono qui nel mezzo di un aeroporto in un Paese sconosciuto, dove nessuno sembra saper spiaccicare neanche due parole in francese. E ho portato anche te. Che casino ho combinato!». Per fortuna, dopo circa una mezz’ora, Jacqueline notò un signore in mezze maniche di camicia bianca, il quale teneva in mano un cartello, con su scritto a mano in caratteri maiuscoli: «RAFAELI». Neanche il cognome avevano compreso. Salimmo sulla vettura, mentre l’uomo caricava i bagagli; erano tanti e non stavano tutti nel baule: mise alcune valigie anche sul sedile anteriore; la più parte, però, era rimasta in Italia. Una borsa era piena di contanti, ma la lasciai comunque sistemare all’autista; non mi importava molto, non riuscivo a vedere altro che te: ti eri seduta sulla destra del divano posteriore della Mercedes, ti nascondevi dietro quei grossi occhiali scuri e guardavi fuori dal finestrino, dalla parte opposta rispetto a me.

     Dopo qualche tempo, iniziammo ad ambientarci: trovammo casa, imparammo il portoghese (tu meglio di me: io lo confondevo con lo spagnolo ogni tanto) e ricostruimmo le relazioni necessarie ad una vita. Mario ci aveva suggerito bene: con un decimo dei soldi che avevamo in Italia – gli unici che riuscimmo a trasferire – si riusciva a condurre una vita il doppio più lussuosa. Tu ripresi a sorridere, io a fare il mio lavoro (qui era anche così facile) e pure i tuoi baci tornarono ad avere il gusto di prima, di quando ci eravamo conosciuti, di quando tutto era iniziato.

     Ora sono passati tanti anni e sono immobile su questo letto: sembra che io dorma o che, vecchio, io sia morto. Le mie orecchie sono sorde, la mia bocca chiusa e muta; non percepisco odori e da mesi non mi alimentano più dalla bocca: forse nemmeno la lingua funziona più. Io lo so che loro si domandano se io soffra o meno; si interrogano se io voglia morire o restare in vita; qualcuno forse spera che miracolosamente io mi risvegli – come dopo una lunga dormita – ma molti altri di certo si augurano che io crepi presto. In realtà, da quando sono ridotto così, non mi sono mai posto tutte queste domande: semplicemente non te le fai. Non io almeno. Io non sento niente: non so se sono fermo o se qualcuno mi muova; non so cosa dica il dottore, non so cosa faccia l’infermiera, non so neanche dove sono: lo immagino e basta. Non dormo, non sono sveglio, non faccio alcunché, a parte pensare. Penso di continuo. Penso a tutta la mia vita; ogni giorno la ripercorro tutta, dal primo ricordo fino all’ultimo. Solamente, ogni tanto, ho come l’impressione che ti avvicini al letto, che tu resti circa a mezzo metro da me e mi guardi. Ed allora provo qualcosa: sento come una mano stretta a pugno che da sotto lo sterno si avvicina al cuore e lievemente, ma continuamente, lo comprime verso l’alto. Poi ti allontani, e passa. Io, quei tre giorni in cui non mi parlasti dal nostro arrivo a San Paolo, non me li sono mai perdonati.